PROLOGO: Da qualche parte
in Transia
Il pugno corazzato affondò nel
torace di Adam Warlock, sfondando come niente il corpetto corazzato scarlatto.
Il pugno uscì dalla schiena, trascinando con sé diversi tipi di liquidi, microcircuiti
e scintille.
Il corpo del robot dalla pelle
dorata ebbe un sussulto e si afflosciò, tenuto in piedi solo dalla forza del
suo distruttore: un lupo antropomorfo, dalla pelliccia rossa, coperto da una
robusta armatura smeraldina, con un gioiello scarlatto che brillava sulla
fronte dell’elmo.
Altri tre robot, identici a
quello appena caduto, si gettarono contro il loro avversario. Lampi smeraldini
sgorgarono dalle gemme dello stesso colore che brillavano sulla loro fronte.
L’armatura resse facilmente a
quegli attacchi. Gli occhi del lupo brillarono, e allo stesso tempo la sua
gemma rispose.
In rapida sequenza, tre colpi
centrarono infallibilmente le teste dei simulacri. Tre esplosioni attutite
segnarono la fine del combattimento. I corpi decapitati si unirono alla schiera
che già formava un tappeto sul pavimento.
La creatura si sbarazzò della
sua preda, gettandola a terra con noncuranza. Ansimava, la lingua penzoloni, ma
non per la fatica.
Per la rabbia.
Rabbia che non sapeva su chi
sfogare. Rabbia che, poco alla volta, cresceva fino a diventare il familiare
odio.
Il lupo si guardò intorno -era
un vero peccato che questi giocattoli non fossero il suo vecchio nemico… Già…
MARVELIT presenta
L’Uomo-Bestia: Call of the Evil!
La porta scorrevole si aprì, e
Karnivor entrò nella sala medica.
Si fermò di fronte al letto su
cui giaceva, profondamente addormentato, un suo simile: un altro maschio dal
pelo rosso, ma con indosso solo una tuta sensoriale biomedica bianca.
Una batteria di monitor
mostrava ogni valore dell’organismo sotto esame, oltre a proiezioni 3D del
sistema osseo, muscolare, circolatorio e nervoso. Un cerchio verde evidenziava
l’area dell’attacco fra gomito e braccio sinistro, dove stavano ancora
lavorando i microrganismi preposti alla riparazione.
Nella mente di Karnivor
ripassò per l’ennesima volta, con infernale chiarezza, il momento in cui un
corpo di aria, solido ed affilato come una lama, tagliò di netto il braccio di
Sir Wulf[i]. Il
braccio del suo compagno, di squadra e di vita…
Un taglio netto, perfetto;
l’unico colpo di ‘fortuna’, in quella tragedia. Ci sarebbero volute 24 ore di
lavoro, ma il risultato sarebbe stato ineccepibile…
Le mani guantate di metallo si
contrassero ripetutamente, mentre istintivamente Karnivor immaginava di
affondare gli artigli nella gola di Blade. Il muso si arricciò di riflesso,
mentre il naso sentiva l’odore-fantasma del sangue del nemico.
Dell’umano.
Non gli importava che il maledetto
fosse fuori di sé, posseduto da forze più grandi di lui. Gli importava solo che
un umano quasi gli aveva tolto il compagno. Come era già successo una volta.
Karnivor si voltò ed uscì
dall’infermeria.
Dopo avere indossato l’elmo,
si diresse verso un corridoio cieco. Quando arrivò al termine, continuò a
camminare, ed attraversò la parete.
Si ritrovò in uno dei tanti
laboratori della base… Ma questo era speciale. Karnivor era il solo a
conoscerne l’esistenza. Persino Sir Wulf ne era tenuto all’oscuro.
Per una ragione precisa.
Gli occhi del lupo corsero fra
le batterie di strumenti, monitor di microscopi elettronici…e soprattutto sulla
struttura al centro della stanza: un cubo di adamantio secondario, a tenuta assolutamente
stagna, sistema di ventilazione ad atmosfera negativa -niente che potesse
trovarsi in aerosospensione poteva uscire da lì. Il cristallo delle finestre
utilizzava vibranio al posto del piombo. Le armi convenzionali non potevano
infrangerlo.
Karnivor si avvicinò al cubo.
Solo i suoi occhi potevano vedere la tastiera laser ‘dipinta’ sulla parete.
Inserì velocemente il codice di accesso.
La spessa porta si aprì con
uno scatto veloce, rivelando una piccola camera di compensazione. Karnivor
entrò. La porta si chiuse velocemente come si era aperta. Radiazioni
ultraviolette bagnarono la figura, poi la seconda porta si aprì.
L’armatura era a tenuta stagna
come il cubo. Era una misura più che indispensabile, là dentro.
Una seconda tastiera apparve a
mezz’aria. Karnivor inserì il nuovo codice. La tastiera scomparve, e con un
sibilo del sistema idraulico, seguito da nuvole di vapore di azoto, dal
pavimento emerse un cilindro metallico. Ricordava un archivio a cilindro, solo
che al posto dei raccoglitori c’erano cassetti di metallo nero.
Appena il cilindro fu del
tutto uscito, Karnivor estrasse un cassetto, che si rivelò essere una
rastrelliera che ospitava due file di fiale. Ogni fiala conteneva un liquido
del colore del brandy.
Delicatamente, molto
delicatamente, Karnivor estrasse una di quelle fiale e la tenne sollevata fra
pollice ed indice, contemplandola con un perverso affetto.
Era la sua creazione migliore.
L’arma perfetta, invincibile, irrintracciabile. Incurabile.
Quando ancora pensava di
dominare sulla Contro-Terra. Una vita fa.
Era tutto perfetto, allora. Su
quella Terra non c’erano praticamente super-esseri, e i pochissimi presenti non
avrebbero costituito un ostacolo. Warlock era il solo, vero nemico.
Se quest’arma fosse stata
scatenata, avrebbe letteralmente riscritto la biologia del pianeta, riportando
l’ecosistema indietro ad una sola forma di vita: quella virale. Ci sarebbero
voluti, forse, altri miliardi di anni, o le macchine dell’Evoluzionario, per
tirare fuori delle creature senzienti dal nuovo brodo primordiale.
Per questo non l’aveva usata:
distruggere l’umanità era una cosa facile. Spingere l’Evoluzionario ad
ammettere il proprio fallimento era il vero scopo dell’Uomo-Bestia. Corrompere
la sua creazione e il suo prediletto Adam Warlock, quello sarebbe stato un
degno successo.
E ora…
E ora, stava per infrangere
una promessa fatta a colui al quale avrebbe dato la propria vita senza esitare
un istante.
Delizioso, amarissimo
paradosso: aveva promesso di abbandonare la vecchia via in nome della pace,
insieme al suo lupo. Ma non poteva ottenere un tale status, se allo stesso
tempo non avesse lavorato ad un sistema per sbarazzarsi nel modo più veloce e
meno traumatico possibile dei loro nemici.
Gli umani.
Sesso, età, fede religiosa…
Che importanza aveva? Loro perseguivano lo sterminio della sua specie, erano
nemici antichi come il tempo.
Tempo. Solo una questione di
tempo, prima che riuscissero a raggiungere il loro scopo.
Sir Wulf aveva ragione, su di
lui: Karnivor non intendeva più perseguire sogni di conquista e di potere.
Ma aveva torto, se credeva che
il suo odio si fosse placato!
La
creatura ripose la fialetta nella rastrelliera. Aprì un secondo cassetto,
identico al primo per forma e contenuto, e prese una nuova fiala. Il colore di
questa sua creazione era opaco, come acqua sporca. Non si avvicinava
lontanamente all’efficacia della sua arma perfetta, ma questo agente avrebbe
saputo fare bene il proprio lavoro.
Karnivor
infilò delicatamente la fiala in un
alloggiamento della vita, e fece scivolare il cilindro nel pavimento.
La seconda stanza segreta
racchiudeva un tesoro non meno importante delle armi biologiche.
Karnivor sollevò la copertura
di un cubo metallico di non più di un metro di lato. La luce del contenuto si
sostituì a quella delle lampade.
Sotto l’elmo, Karnivor sorrise.
Il campione di Isotopo E era attivo come sempre, pronto all’uso, nel campo di
stasi che preveniva la sua degenerazione.
Fino a quel momento, il lupo
non era stato sicuro di volere provare sul campo quel particolare esperimento:
la simulazione al computer prometteva bene, ma le variabili sul campo, inclusi
i numerosi super-esseri del globo, erano un’altra cosa.
Ma fino a quel momento,
nessuno aveva messo in pericolo Sir Wulf.
Doveva scoprire se era sulla
strada giusta. Aveva una serie di bersagli ideali, programmati da tempo e
costantemente tenuti sotto controllo… Ma uno in particolare, meritava la sua
attenzione!
Era
ora di posare il primo mattone della strada dell’inferno dell’Uomo.
Hope, Montana
La tormenta era una delle
peggiori degli ultimi vent’anni. Non c’era traccia di esseri viventi per
chilometri e chilometri, fuori dalla città rurale.
Il cartello che segnalava
l’ingresso alla città era piantato affianco alla strada, per la precisione sul
ciglio della vecchia strada di accesso.
Una strada costruita
interamente con le ossa dei lupi uccisi dai coloni europei nei secoli addietro.
Un segno inequivocabile, uno dei tanti, della capacità distruttiva degli esseri
umani.
La figura, un uomo dalla barba
rossa, la testa coperta da un berretto di lana, in tenuta da escursionista, con
un ampio zaino sulla schiena e un bastone chiodato nella destra, procedeva a
passo misurato lungo il ciglio della strada vecchia, osservando quanto rimaneva
di quelle ossa ormai ingiallite, logorate e calpestate da migliaia di piedi, di
zoccoli e di ruote…
Il suono di ruote in frenata
spostò la sua attenzione. “Salve, straniero! Ti piace lo spettacolo?”
Lo straniero osservò l’uomo
che si sporgeva dal finestrino del passeggero del fuoristrada. Il veicolo era
marcato con i colori e il simbolo dello Sceriffo della Contea, ed aveva i
lampeggianti attivati. Lo straniero si maledì brevemente per essersi lasciato
distrarre dal macabro spettacolo sotto i suoi piedi…
“Problemi?” ripeté il
passeggero in divisa neutra. A giudicare dai tratti somatici, c’era
indubbiamente del sangue indiano, in lui, anche se fortemente diluito.
Lo straniero lo fissò negli
occhi, mentre rispondeva, “Nessuno, agente. E, sì, è uno…spettacolo
interessante.” Si avvicinò al veicolo. “Non avevo mai visto nulla del genere.”
L’altro gli rispose fissandolo
con la stessa intensità. La sua giovialità di prima era scomparsa di colpo.
“Questa è una terra di allevatori, mister. C’è sempre stata una forte
competizione con i predatori locali.” Linguaggio sterile, burocratico, buono
per l’eventuale ecoturista indignato.
Lo straniero guardò il
cartello di ingresso. “Posso immaginare a cosa si riferisca il nome della
vostra città, quindi.”
“Già,” disse una seconda voce
maschile, dal lato dell’autista. L’uomo al volante si sporse in avanti a
guardare lo straniero. “Si riferisce alla speranza che non ci siano mai più
lupi a percorrere le nostre terre.”
Lo straniero sorrise.
“Speranza esaudita, se non erro. Nel 2004, è stato eliminato l’ultimo branco di
animali reintrodotti da un programma federale.” Risposta sterile, burocratica,
buona per tenere a bada le menti sospettose.
“Già. Posso vedere i suoi
documenti?”
Lo straniero non fece una
piega, estraendo e porgendo il portafoglio. “Spero che l’escursionismo non sia
considerato alla stregua del reato vagabondaggio, qui, agente.”
L’indiano esaminò rapidamente
i documenti, e già che c’era scrutò brevemente il contenuto del portafoglio. “È
lo Sceriffo. No, Rambo; ma neppure noi vogliamo guai; ci piace sapere chi ci
viene a fare visita. Sei solo di passaggio?”
E se non era una sottile
allusione quella… “Sì. Vorrei
fermarmi giusto un due, tre giorni, per riposare e fare rifornimento. Poi levo
le tende. A proposito, avete un buon locale da consigliarmi? Ho con me anche
giacca e cravatta, nel caso ci fosse da vestirsi bene.”
Lo
sceriffo rise di gusto. L’indiano sorrise. “Se dici la verità, Ma’ Lea ti
adorerà, mister.” Si udì lo scatto della serratura della porta. “Salta a bordo.
Sei fortunato: il miglior ristorante di Hope è ospitato nel migliore albergo di
Hope.”
Quando lo straniero scese dal
veicolo, parecchi occhi dei passanti si voltarono verso di lui. E in quegli
sguardi, così come nelle loro emozioni, egli colse diffidenza e timore. “Mi pare
di capire che non ne vedete molti di turisti, da queste parti?”
“Non proprio,” rispose lo
sceriffo, scendendo a sua volta. Si tolse gli occhiali. “Ma ormai il comune è
subissato di chiamate, lettere ed e-mail di insulti e minacce, da quando
l’ultimo lupo del Montana è stato sterminato. Escrementi per posta,
manifestazioni… I democratici ci tengono d’occhio, e anche qualche repubblicano
non ci vede bene.” Lo sceriffo sospirò. “È dura essere una bandiera. Qui, in
fondo, vogliamo solo portare avanti i nostri affari in pace. Metà di quelli che
protestano, ci scommetto, mangiano con appetito la nostra carne.”
“Speriamo che non imparino a
leggere le etichette, allora,” disse lo straniero con un sorriso complice.
Lo sceriffo rise di nuovo. “Tu
mi piaci, mister. Senti, adesso andiamo dentro. Se Ma’ Lea non avrà obiezioni,
stasera ceneremo insieme. Offro io.”
Lo straniero ci pensò su. “Mi
sembra un’ottima idea. Non ero sicuro che in quest’amena località accettassero
i soldi di plastica.”
“Abbiamo anche la TV via cavo,
ci crederesti? Andiamo, su. Josh, tu stai qui, torno subito.”
L’indiano li osservò
allontanarsi verso l’edificio. Il suo volto era una maschera impassibile.
Lo sceriffo tornò circa una
decina di minuti dopo. “Tipo incredibile: ha affascinato Ma’ Lea al primo
sguardo. Credo proprio che stasera ci sarà cucina di primissima scelta… Josh,
qualcosa non va?”
Il vicesceriffo stava
osservando una finestra dell’albergo, e continuò a guardarla mentre saliva in
macchina.
Quando anche lo Sceriffo fu
dentro, l’indiano disse, “Non saprei metterci il dito sopra, Vince. Tutto
l’atteggiamento di quell’uomo è nella ‘norma’: dal sorriso al portamento, è il
tipo di persona che ispira fiducia…ma a me fa venire in mente lo sguardo
ipnotico e la danza sensuale di un serpente velenoso prima dell’attacco. Sai
che è pericoloso, ma non puoi fare a meno di guardarlo.”
“Quel tipo ti ricorda
qualcuno? Un bracconiere, o…”
Josh scosse la testa. “No. È
solo una questione di…istinto, immagino. Spero solo di sbagliarmi… Ehi, ti
senti poco bene?”
Lo
sceriffo aveva preso a massaggiarsi insistentemente il collo, proprio
all’attacco col cranio. “Un mal di testa improvviso, tipo cervicale. Che
cavolo, lo sapevo che non dovevo fare quel giro extra di pattuglia, ieri
notte.”
Dalla sua camera, lo straniero
osservò l’auto sparire dietro un angolo.
Fino ad ora, tutto stava
procedendo per il meglio. Il bar dove aveva bevuto un cordiale era affollato
come sperava. Entro qualche ora, tutta quella gente sarebbe tornata alle
proprie case.
L’uomo si rigirò la fialetta
vuota nella mano, poi controllò l’orologio. Il virus avrebbe continuato ad
espandersi come un banale raffreddore, con il vento in favore. Dopo sette ore,
il periodo di incubazione sarebbe giunto a termine. Nel frattempo, i più
ansiosi ed i più anziani si sarebbero diretti al pronto soccorso non appena
avessero avvertito i primi sintomi, e a quel punto il personale medico sarebbe
stato contagiato prima di potere lanciare l’allarme.
A lui spettava solo, per il
momento, di intercettare le comunicazioni relative all’epidemia. Una volta che
il virus fosse esploso in tutta la sua potenza, la città sarebbe morta nel giro
di due o tre ore al massimo.
Erano
le 13:21
Ospedale Our Lady of Hope.
Ore 18:44
La donna staccò gli occhi dal
microscopio. Si abbandonò con un sospiro sullo schienale della sedia e si terse
la fronte.
La porta del laboratorio si
aprì, ed entrò un ragazzo in uniforme e mascherina, che reggeva un vassoio con
una tazza di caffè fumante e una brioche.
La donna accettò grata
l’offerta. “Non hai bisogno di quella. Del resto, ormai ce l’abbiamo tutti a
questo punto, qualunque cosa sia. Quanti sono i pazienti, ora?”
Il ragazzo si calò la
mascherina. “I più gravi sono una ventina di più. Gli altri sono tornati a casa
con il solito, aspirina, tylenol e le solite raccomandazioni di prudenza.
Cavolo, dottoressa: non finivano mai.”
“È insolito, ma non
impossibile. Tieni presente, poi, che quando un certo numero di persone comincia
ad accusare sintomi veri e propri, ce ne sono almeno un quarto in più che i
sintomi se li immagina. Aggiungi che questo tempo non aiuta certo il
buonumore…”
“E che il nostro miglior
medico è anche il medico più carino della contea,” aggiunse al volo il giovane.
“Niente di strano che vengano a fare la fila.”
Lei non si scandalizzò: da
quelle parti, un complimento sessista era una cara, vecchia lusinga.
“Preferirei che non si esponessero al maltempo venendo fin qui. Hai telefonato
ai Kaplan e ai Corson?”
“Yup. Hanno fatto fuoco e
fiamme all’inizio, ma quando ho fatto il suo nome, si sono addolciti come
agnellini.”
La
dottoressa si batté le mani sulle gambe. “Bene! È ora di dare un’occhiata ai
nuovi malati…” avvertì una fitta alle cervicali. Era la terza volta, ed era più
forte delle precedenti. “Sì, mi sa che fra poco chiudiamo, Carl. Ho bisogno di
una lunga notte di sonno. E passami del Tylenol, già che ci sei, per favore.”
Hotel White Caps. Ore 20:30
La tormenta peggiorava di
minuto in minuto. Josh Twofeathers non era per nulla sorpreso che le strade
fossero ormai deserte. Lui stesso si sentiva un idiota a muoversi con un simile
tempo, ma il dubbio continuava a tormentarlo.
Le ricerche sul database non
avevano prodotto alcun risultato utile sullo straniero, che secondo la legge
era incensurato. Qualche multa per divieto di sosta era il massimo crimine
degno di nota… Oh, sì, e c’erano state due o tre violazioni di proprietà
privata -il tipo aveva sconfinato durante le sue passeggiate.
C’era solo un particolare
stonato, in quel normalissimo ritratto.
Lo straniero non aveva mai
fatto escursioni in pieno inverno.
Purtroppo, le linee
telefoniche erano state interrotte dalla tormenta e la radio faceva i capricci
-tutto nella norma. Ci sarebbe stato un miglioramento nei collegamenti solo a
tormenta finita…
Josh si sentiva un idiota, ma doveva incontrare quell’uomo un’altra
volta e parlargli. Il pensiero che in lui ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato lo aveva tormentato dal
momento in cui lo avevano lasciato all’albergo…
L’auto frenò davanti alle
scale dell’ingresso, dove la neve era stata spalata di fresco.
Josh entrò…e si fermò di
colpo. “O mio Dio….”
Temeva guai, ma non quello che
si parò davanti ai suoi occhi.
Sangue.
Sangue ovunque, laghi di sangue
sul pavimento, schizzi di sangue nero sulle pareti, alcuni alti fino al
soffitto. La puzza di morte saturava l’aria al punto da sembrare come un muro
per il vicesceriffo di Hope.
L’uomo estrasse la pistola e
la puntò davanti a sé, ai lati, senza sapere dove. Era stato completamente
preso di sorpresa. Non aveva un’idea di cosa stesse succedendo…
Un grugnito? Il suono lo
scosse come una schioppettata. Veniva da dietro il bancone della reception.
Lui si avvicinò cautamente al
bancone. Ogni procedura era saltata, nella sua mente. Non sapeva cosa dire o
cosa fare…
Quei versi orrendi non
smettevano, se non per essere a tratti sostituiti da un suono come di…come di un animale che mastica.
Josh si sporse appena oltre il
bancone. E gli venne da vomitare. Dopo avere deglutito un paio di volte, l’uomo
disse, “Ma’...?”
Ma’ Lea, la florida
proprietaria e gestrice del White Caps, era china sul corpo di uno dei due
fattorini. Era lei che stava grugnendo in quell’orrido modo. Al suono della
voce di Josh, si interruppe, e si voltò.
Josh vide tre cose allo stesso
tempo: il volto mancante, smangiato, del povero Willie, il sangue che lordava
il volto di Ma’ Lea, ed il sorriso agghiacciante che le deformava le labbra.
Un sorriso rivolto a lui.
Josh fece tre passi indietro. Respirava
affannosamente, era pallidissimo. Più veniva immerso in quella follia, però,
più ne veniva anestetizzato. Stava progressivamente ritrovando una parvenza di
lucidità…
Un passo dietro di lui!
Si voltò di scatto, sempre
puntando la propria arma. “Ed?”
Il secondo fattorino. Un
ragazzo che veniva regolarmente assunto per l’alta stagione. Era stato nominato
impiegato del mese appena la settimana scorsa, grazie anche ai suoi modi
affabili ed educati.
E ora, con la stessa
espressione folle di Ma’ Lea, si stava mangiando un braccio umano come uno
potrebbe sgranocchiarsi una prelibata costoletta. Josh vide con assurda
chiarezza il resto di un tatuaggio, lungo il bordo smangiato dell’arto. Era
quanto rimaneva di un tatuaggio del corpo dei SEAL.
Carl Hopkins. Edward si sta mangiando il braccio di Carl Hopkins.
Signore aiutami!
Solo a quel punto, Josh si
accorse che altre persone stavano entrando nell’atrio. Individui amici e
conoscenti fino a qualche ora prima, adesso erano ridotti a delle specie di
zombie affamati.
E tutti lo stavano guardando.
Josh si voltò e fuggi.
Per qualche miracolo, riuscì a
non scivolare sulla neve, mentre si fiondava in macchina. Chiuse la porta
proprio mentre le porte dell’albergo si aprivano, vomitando una massa delirante
ed urlante.
Sono tutti vestiti leggero, si beccheranno un colpo! Fu tutto quello che gli venne in mente di pensare,
mentre avviava il motore.
Due dei folli si gettarono
contro la portiera ed altri tre contro il cofano. Josh era sicuro che le loro
azioni fossero in qualche modo coordinate. Sapevano quello che facevano.
Speravano che lui non facesse loro del male.
Josh fece retromarcia
velocemente per alcuni metri, poi premette l’acceleratore a tavoletta.
L’auto travolse i folli come
birilli. Josh ignorò il rumore delle ossa spezzate e delle urla di dolore.
Ormai la sopravvivenza aveva preso il posto della ragione. Il suo solo scopo
era raggiungere l’ufficio ed armarsi a dovere, tentare di contattare qualcuno
per i soccorsi, o almeno vedere se dei radioamatori fuori città qualcuno era
scampato a questa follia. Magari, nella stessa Hope, qualcuno se l’era cavata
ed ora aveva bisogno di aiuto…
La neve cadeva quasi
orizzontalmente, tanto forte era il vento. I fari illuminarono a tratti delle
figure che vagavano in strada. Era sangue, quello sulle loro mani ed i vestiti,
o solo un’allucinazione..?
Ma non poteva rischiare di
fermarsi per controllare. Non voleva
fermarsi.
La macchina si fermò davanti
alla stazione di polizia. Josh scese in tutta fretta e corse dentro, senza neppure
preoccuparsi di togliere le chiavi dal cruscotto.
Appena fu entrato, chiuse la
porta a tripla mandata.
Lo straniero, era stato lo
straniero, ne era sicuro. Un seminatore di morte, uno spirito malvagio in forma
umana. La tribù dei nonni di Josh aveva anche un nome per una simile entità, ma
a lui non veniva in mente. E dire che ne aveva ascoltate, di favole, quando era
piccolo!
Josh entrò nell’armeria.
Schwarzenegger avrebbe senza dubbio trovato il necessario per iniziare una
guerra. Josh si doveva accontentare di un fucile a pompa, una scatola di
munizioni per quello e una per la sua pistola di ordinanza.
Finito di rifornirsi, il
Vicesceriffo si diresse alla radio. Si portò la cuffia all’orecchio ed aprì il
collegamento. “Parla Josh Twofeathers. Parla il Vicesceriffo di Hope, Montana.
C’è qualcuno in ascolto? Ripeto, c’è qualcuno in ascolto?”
Per qualche interminabile
secondo, gli risposero solo le statiche. Poi, finalmente, una voce umana!
“Capo? È davvero lei? Pronto?!”
Josh tirò mentalmente un
sospiro di sollievo. “Sì, Amos, sono io. Sei scampato a questa follia?” Amos
era un vecchio allevatore e bracconiere che viveva al margine della città,
praticamente nella foresta, in una roulotte. Del suo appezzamento per le bestie
era rimasto solo un recinto di legno tarlato. Aveva personalmente abbattuto i
suoi cani da guardia dopo che aveva dovuto vendere l’ultima vacca per pagarsi i
debiti. Era il tipo d’uomo che ai
federali del programma di reintroduzione del lupo avrebbe sparato a vista prima
e sputato sul corpo poi.
Amos poteva essere un vecchio
bastardo acido, ma se era armato e lucido, poteva essere la sola speranza
rimasta… “Amos, ascolta. Qui sta succedendo un casino, non so cosa…”
“Capo, sono io che ho bisogno di aiuto!” il terrore
nella sua voce si fece finalmente largo nei pensieri di Josh. “C’è… C’è una
specie di animale, qua fuori! Si sta avvicinando! Gli ho sparato tutte le mie
cartucce, ma quello non muore! Capo, io… ODDIO!” si udì una specie di schianto,
poi un ringhio orrendo, bestiale.
Josh premette la cuffia contro
l’orecchio fino a farsi male, mentre udiva le urla di orrore del poveretto,
unite ad suono degli abiti lacerati.
Poi fu il silenzio. Un
lunghissimo silenzio.
“Amos..?”
La voce che gli rispose non
era quella di Amos. Era una voce gutturale, profonda. Una voce cattiva. “Salve,
mutante.”
“Cosa? Chi..?”
Udì un suono di lingua contro
le labbra? “La preda che ho appena ucciso era l’ultimo degli umani scampati al
mio virus. Tu sei l’unico dotato di immunità naturale.”
“Di cosa stai parlando? Chi
sei?”
“Stai per scoprirlo.” La cosa
dall’altra parte ridacchiò. “Non eri curioso di conoscermi, umano?” La
comunicazione fu spenta.
Josh lasciò cadere la cuffia.
Andò alla finestra. La neve là
fuori si stava accumulando troppo velocemente. Già andare a piedi era
impossibile. Un veicolo avrebbe avuto dei problemi a muoversi da dove si
trovava Amos…
Josh quasi si mise a ridere:
quella cosa era uno spirito, non era di questo mondo. Poteva coprire le
distanze con un pensiero!
L’uomo si scoprì a mormorare
una preghiera nella lingua dei suoi avi.
Si voltò, e si appoggiò con la
schiena alla parete. Si lasciò scivolare a terra. Quando fu seduto, estrasse la
pistola dal cinturone. Se la rigirò fra le mani, contemplandola -forse,
quell’arma era la sua sola via di uscita. Se usciva da lì, gli zombie lo
avrebbero mangiato. Pensò alle gemelline Olson, due creaturine di appena
cinque anni, così innocenti. E a tutti i giovani di Hope, per i quali la
speranza era morta o stava morendo in quel preciso istante. Quanti si erano
barricati e aspettavano, sperando che gli zombie non li inseguissero o se ne
andassero? Non voleva andare casa per casa a vedere chi ce l’avesse fatta, lui
non era uno di quegli eroi dei film d’azione. Da solo, in quelle condizioni,
era senza scampo.
E lo spirito sarebbe arrivato
per lui presto…
Josh si appoggiò la canna alla
tempia. La premette con forza, il dito rigido sul grilletto. Restò in quella
posizione per circa un minuto, prima di spostare l’arma.
La fissò nuovamente, poi la
gettò via con rabbia dall’altra parte della stanza. Scattò in piedi e, rivolto
all’aria, urlò con tutto il fiato che aveva. “PERCHE’?! PERCHE’ CE L’HAI COSI’ CON NOI? COSA TI ABBIAMO FATTO,
MALEDETTO?! RISPONDIMI!!”
“Avete sterminato la mia
gente,” gli rispose quella voce. Alle
sue spalle.
Josh si voltò di scatto,
sicuro che il cuore avesse perso un paio di colpi. E sicuramente ne perse un
altro, alla vista del lupo umanoide ad un passo da lui. Indossava in un costume
aderente scarlatto, con un ampio mantello verde. I suoi occhi erano braci
ardenti, malevole oltre ogni dubbio.
Un braccio impellicciato
saettò, e una mano/zampa artigliata afferrò Josh per la gola. L’uomo fu
sollevato senza sforzo e schiacciato contro la parete.
Snudando le zanne, Karnivor
ringhiò, “A migliaia ne avete uccisi, e non paghi ne avete fatto un trofeo su
cui camminare. Neppure da morti sono valsi il vostro rispetto. I loro corpi, le
loro teste, le loro pelli…per voi sono solo abbellimenti di cui andare fieri.
Vi vantate di essere una località libera dai lupi come i vostri Nazisti si
vantavano delle città libere dagli ebrei.” Avvicinò il muso al volto
dell’umano, che sentì il sapore di sangue nel fiato rovente -era il sangue di
Amos? “Dimmi, umano: che effetto fa essere dalla parte delle vittime?”
“I bambini… Perché anche
loro..?” rantolò Josh Twofeathers.
La creatura sorrise, e se
possibile l’odio in quell’espressione era ancora più accentuato. “Voi avete
avuto pietà dei nostri cuccioli? Volevate essere sicuri di fare un buon lavoro.
Lo stesso vale per me. Consideralo tanto un atto di giustizia, quanto un
anticipo di quello che verrà per tutta la tua immonda specie.”
“Cosa*” Poi gli artigli
strapparono via la gola. Josh ricadde a terra, in preda agli spasmi.
Karnivor estrasse una siringa
da una tasca della cintura, e raccolse un campione dalla carotide lacerata.
L’Uomo-Bestia rigirò
l’oggetto. Questo mutante possedeva doti tel-empatiche: un profano si sarebbe
limitato a dire che era capace di ‘capire’ le persone alla proverbiale prima
occhiata. Il mutante stesso aveva sempre usato il proprio potere in modo
marginale, limitando i propri orizzonti al suo lavoro.
Fino a quel momento, Karnivor
aveva studiato campioni di sangue prelevati da banche e da donatori
inconsapevoli. Quel sangue non aveva fatto parte di un corpo stimolato al
limite. I risutalti potevano mostrarsi…interessanti.
“Computer. Sequenza di
distruzione omega. Teletrasporto.”
La figura dell’Uomo-Bestia
scomparve.
Circa cinque minuti dopo,
preceduto da un bagliore, un oggetto apparve nel cielo: un cilindro metallico
appeso ad un largo paracadute.
Quando l’oggetto si trovò alla
distanza preimpostata dal centro di Hope, esplose! Fu come una piccola
esplosione nucleare. Qualunque edificio nel raggio dell’esplosione fu spazzato
via come un castello di carte. Il calore liberato dal napalm ad alta
concentrazione terminò il lavoro dello spostamento d’aria. Hope, Montana, era
diventata un cratere morto.
Uno spettacolo soddisfacente,
per la creatura che assisteva da una distanza di sicurezza. Senza ospiti in cui
prosperare, il virus sarebbe morto entro un paio d’ore. La detonazione era
stata coperta dalle nuvole. Il cielo era e sarebbe rimasto proibitivo per tutta
la notte. I dispositivi di rilevazione disposti nel perimetro stimato in due
ore di cammino da Hope non avevano rilevato tracce di vita umana.
Ogni traccia era coperta. Se
qualche super-essere si fosse presentato ad indagare, alla peggio sarebbe
diventato esso stesso una cavia…
Per ora, importava solo che
giustizia fosse stata fatta…
“E così è,” disse una profonda
voce dietro di lui. “I nostri complimenti. Sei riuscito dove nessuno del Popolo
aveva osato.”
Karnivor si voltò lentamente,
riconoscendo la voce ancora prima di vederne il proprietario. E fece una cosa
che pochissime volte aveva fatto: si chinò su un ginocchio, offrendo il collo
in sottomissione e piegando le orecchie in basso. “Mi lusingate, antichi.”
Davanti a lui si stagliavano i
quattro membri del Consiglio del Popolo -un licantropo maschio bianco come la
neve, un secondo maschio grigio come il ferro, una femmina rossa come il sangue
ed una così nera da sembrare una solida ombra.
“Se avessi fallito,” disse il
bianco, “ora saresti morto. Per nessuna ragione, la comunità dei super-esseri
deve essere coinvolta nei nostri affari, per ora, salvo coloro che fanno parte
della Sacra Alleanza.”
Il lupo uggiolò il proprio
assenso.
“Ammiriamo l’uso che hai fatto
del tuo sapere e della tua ferocia,” disse il grigio. “Questa gente ed i loro
antenati avevano accumulato un lungo debito di sangue con il Popolo. Un giorno
vi avremmo chiesto di saldare questo debito come Power Pack.”
“Dovrai astenerti dall’operare
secondo le ansie del momento,” disse la femmina nera, in una voce simile ad un
sussurro nel vento. “La pazienza e l’ombra sono nostre alleate nella lotta
contro l’Uomo ed i servi di Thulsa Doom. Non dimenticarlo mai.”
L’Uomo-Bestia uggiolò di
nuovo. In condizioni normali, nessuno avrebbe potuto parlargli così e vivere. Ma
il Consiglio era composto dagli unici mannari sopravvissuti all’era della prima
guerra contro Set. La loro autorità ed il loro status erano, per i lupi,
divini.
Le quatto figure scomparvero.
Il lupo mortale si rialzò in piedi.
Tornò a guardare il cratere di
Hope. L’ordigno era la copia perfetta di un esemplare sperimentale in dotazione
all’esercito degli Stati Uniti. Qualunque inchiesta avrebbe condotto i
responsabili ovunque tranne che a lui od al Popolo. Con un po’ di fortuna,
alcuni umani avrebbero preso ad ammazzarsi l’un l’altro.
Un giorno, non sarete più specie dominante, scimmie. Ve lo giuro!
Teletrasporto.
NOTA DEL’AUTORE: La città di Hope e il sentiero di ossa di lupo sono una creazione di
Michael Evans per il libro THE LOOP (Insieme coi lupi). Ed è vero che nel 2004,
i branchi reinseriti con un programma federale, programma citato nel libro di
Evans, sono stati sterminati in toto dopo che un allevatore aveva denunciato la
perdita di un paio di vacche.